La donna alla finestra
Se c’è una cosa che amavo fare, era stare nella mia stanza con le pareti color lilà sbiadite, nei giorni e nelle notti di pioggia. Traevo grande piacere dall’affacciarmi alle finestre osservando con attenzione le luci elettriche delle case nei palazzi di fronte al mio. Si potevano intravedere, quando non vi erano tende, scene frammentarie di vita quotidiana. Le persone che, nella maggior parte dei casi, ritornavano inconsapevoli alla loro silenziosa e routinaria vita domestica. Non molto lontano, una finestra in particolare, mi colpì una sera. Si trattava di una un’anonima finestra con una leggera e artificiosa struttura intarsiata che creava la sensazione di stare a fissare un piccolo palcoscenico. Dietro, si riuscivano ad intravedere le pareti di un rosso sanguigno che rendevano l’immagine molto più ovattata e indistinguibile. Quel muro era l’unica cosa che riuscivo a osservare, senza quadri o altri tipi di oggetti. Era un muro tappezzato che impedendo alla luce di filtrare, creava delle macchie scure. Quello che mi colpì fin da subito, fu il riflesso di una luce che, in maniera netta, colpiva da dietro, in un punto in cui lo sguardo non arrivava, così da rendere la scena quasi accogliente. Era però serenità apparente. Per molto tempo, da quella finestra non vidi nient’altro. Una sera che non pioveva, ma il vento aveva cominciato a soffiare, vidi una donna affacciata con grande prudenza rimanendo a pochi centimetri senza toccare il parapetto.
La sua rigidità creò una prima sensazione di disagio.
Sentì improvvisamente freddo e ebbi un leggero formicolio nello stomaco, come se il mio intestino fosse stato stretto in una morsa. Era una bella donna. Vestita in uno stile antico con tanti capelli ossigenati alla maniera delle attrici dei primi anni del secolo. In quel momento mi accorsi che osservava un punto imprecisato, ma improvvisamente girò lo sguardo verso di me. Io rimasi lì a fissare. Riuscivo a malapena a vedere le sue labbra che con una certa malizia o forse era malvagità, accennavano un sorriso. Mi accorsi anche che in quel preciso istante gli uccelli smisero di cantare. Il silenzio si impadronì dell’ampio cortile ed fu come se le distanze si fossero annullate. Rimanevamo solo io e lei. Il grande cortile in cui molti alberi secolari si innalzavano, era il mare verde scuro che ci separava. Guardai un attimo il cielo, come se l’occhio fosse stato infastidito da qualcosa. La luce si era offuscata. Ora era muta e color sangue, presagio di tragici eventi. Chiusi istintivamente la finestra e, ancora in stato confusionale, decisi di andare a dormire. Un forte odore si sprigionò da quella casa. Così penetrante che superò la distanza e le pareti. Era così intenso che si poteva percepire la densità che rendeva l’aria piena fino all’inverosimile. Fissai le pareti e per un istante fui terrorizzato dalla vista di un liquido scuro che senza continuità si spandeva, silenziosamente, sul muro.
Mia nonna, nelle giornate come quelle, di ritorno da scuola, cucinava e chiedeva il mio aiuto, più per farmi partecipare ad un rito educativo che perché avesse veramente bisogno. In quei momenti, dunque, stavo lì ma la osservavo senza fare nulla. Ero consapevole che qualsiasi aiuto avessi dato avrebbe rovinato la concentrazione e la passione che ci metteva nel cucinare. Allora andavo di là, in un soggiorno buio che affacciava sui cortili interni. E quello stesso odore, profumo di velluto e di terracotta, riempiva l’aria. Io seduto sul divano verde potevo quasi toccarlo, lo vedevo. Era lì che si addensava intorno agli angeli e alle figure di donna che lei plasmava in terracotta da sempre. Allora attraversavo questi momenti con incredulità e leggerezza. Oggi, dopo molto tempo, il ricordo di quelle sensazioni mi riempie di tristezza. Pensavo che gli angeli, quegli angeli della nonna erano l’unica cosa che aveva, che le recava gioia; come il cucinare o il vedere noi nipoti che crescevamo. Una profonda nostalgia si impadronì di me, proprio in quel momento andando ad aggiungersi alle lacrime. Alzai gli occhi al cielo. Si era fatto buio. Il cielo era così scuro senza limiti, come una massa di pece nera impenetrabile. Nei giorni successivi provai a non pensare a quell’avvenimento estremamente singolare. Notai un fenomeno assai strano. Cominciai ad avere frequenti déja vu. Questo mi portava spesso a bloccarmi mentre parlavo e a rimanere imbambolato per qualche secondo. Avvertì come la sensazione di essere bloccato in un sogno. Come se stessi rivivendo delle sensazioni che avevo già provato in passato. Le sere successive non andò meglio. Ogni volta che posavo la testa sul cuscino rimanevo come assorto in una nube di pensieri che mi rendevano difficile vedere anche i contorni della stanza. Ad ogni singolo scricchiolio sobbalzavo e, soprattutto, l’immagine della donna e il suo sguardo fisso su di me non mi faceva dormire.
Cominciai anche a sognarla. Nei miei sogni avevo la sensazione di vedere un prato blu come il mare notturno circondato da chiazze di cespugli color lavanda, sbiaditi, come i divani di mia nonna. Al centro lei. Vestita di nero. La pelle bianchissima. Le palpebre leggermente abbassate che ricadevano leggermente in pace. Lo sguardo, come quella sera, assorto. Intorno a sé il silenzio. Gli alberi spogli di uccelli che non cantavano più come alla finestra quella sera. Ascoltare la normalità della natura che fa il suo corso, pensai mentre osservavo quella scena. Pensavo di essere al riparo da ogni movimento. Ero in tensione, sporto in avanti con la muscolatura tesa pronta a scattare ad ogni minimo movimento della donna. Era come se stesse ferma lì in silenziosa meditazione. Come se il suo sguardo riuscisse a penetrare anche al di sotto del velo delle palpebre. In quell’istante mi guardò, attraverso la fitta radura. Sapevo che era vero. Sapevo che era un sogno, eppure non riuscivo a svegliarmi. Ero bloccato lì con lei. In quel silenzio immobile. Seppi che tutto sarebbe andato per il peggio. Lei si mosse e cominciò ad avvicinarsi a me. Dentro di me, il terrore crebbe improvvisamente. Era sempre stato li, mi accompagnava ed era pronto ad esplodere come lava che risale gli strati profondi della terra. Non è possibile, dissi. È solo un sogno. Non capisco. Cosa succederà adesso.
I miei pensieri furono distratti. Ecco che sentì l’eco di gabbiani che volavano. Il loro monotono rumore si intensificava sempre di più. Penso che vadano verso il mare. Ho sempre avuto paura del mare di notte. I gabbiani, invece, ascendevano velocemente verso le onde.
La donna era quasi giunta dove ero io. Improvvisamente, un bambino uscì dalla radura e cominciò a piagnucolare sempre più forte. Un vento freddo si alzò dal mare. La natura si risvegliò seguita dall’implorazione di quel bambino. Mi svegliai.
La stanza era vuota e ancora buia. Riuscivo ad intravvedere le particelle di polvere sospese. Non si respirava e avevo le narici secche che occludevano il passaggio dell’aria fresca.
Mi trovai paralizzato li nel letto. Mi accorsi che ero bloccato con una colla che mi teneva fermo. Era in realtà il mio sudore. Era tutto un sogno.
La porta scricchiolò e si aprì. Entro la donna. Un passo dopo l’altro in silenzio. Verso di me.
In quel momento provai con un movimento repentino del corpo a muovermi. Non riuscivo a proferire nessuna parola. La donna mi squadrò dall’alto verso il basso. I suoi occhi non si posarono mai sul mio volto. Si fissarono invece sul mio ventre ansimante. Sollevò la maglietta e osservò a lungo. Con un movimento rapido tirò fuori un enorme coltello. Di quello affilati lunghi e sottili con una lama lucente. Un’impugnatura antica intarsiata. Mi squadrò dall’alto e poi cominciò lentamente ad inserirlo nella carne. I miei occhi erano increduli e sbarrati., In quel momento non riuscivo a muovermi e sentivo il sapore del sangue che risaliva lungo i miei polmoni e dalle mie viscere verso la bocca. Fece uno squarcio con chirurgica precisione e in quel momento che svenni.Quando mi risvegliai ero circondato da bambini. Tutti bambini bianchi anemici, che, come mosche erano attaccate a me. I capelli cosi biondi da essere bianchi gli sguardi assorti e di un innaturale rossore, si nutrivamo del mio corpo.
Mi ricordai ancora una volta della nonna. Mi guardò un bambino con occhi neri imploranti. Luccicavano e risaltava il pallore della pelle bianca.